La tradizione vuole che la pantomima sia esplicata di norma da persone di sesso maschile e di giovane età, quasi ad indicare simbolicamente un’iniziazione all’età adulta. In passato la mascherata del Diavolo e del suo corteo assumeva le caratteristiche di una questua. In prossimità del periodo di Carnevale, le famiglie erano solite riservare parte della carne e dei salumi preparati (molto spesso, infatti, veniva macellato un maiale in occasione della festività) per la venuta del Diavolo che, la mattina del martedì Grasso, girava per le case facendo bottino dei cibi che venivano offerti. Il Diavolo ed il suo corteo tutt’oggi mantengono intatta la tradizione di girovagare per le case del paese, ricevendo però in cambio vino e dolci. Un’altra importantissima differenza, rispetto alla tradizione passata, riguarda la presenza odierna di più intepreti della maschera del Diavolo, mentre originariamente, ogni anno, veniva selezionato un giovane ragazzo al quale spettava l’esclusività del ruolo.
Per quanto riguarda la composizione del costume invece, nei giorni che precedono il Carnevale iniziano i preparativi per il trattamento delle pelli di capra che comporranno la veste del Diavolo. Se le pelli sono fresche, queste vengono fatte seccare per poi essere utilizzate, altrimenti se risalgono ad anni precedenti, è necessario che vengano fatte ammorbidire prima di poterle usare. Il costume si rinnova di anno in anno, e viene cucito a mano. In passato il suo allestimento avveniva il giorno di Martedì Grasso: i membri della comunità interessati direttamente dalla pantomima Carnevalesca erano soliti riunirsi la mattina presto in una cantina del paese, per poi iniziare la vestizione del giovane prescelto per interpretare il Diavolo. Il costume era modellato addosso al giovane attore. Al giorno d’oggi questa pratica è caduta in disuso e, per motivi di tempo, per poter velocizzare la vestizione che avviene il giorno di Carnevale, il costume del Diavolo viene preparato nei giorni antecedenti per poi essere chiuso (con le ultime cuciture necessarie) addosso all’interprete della maschera.
Storicamente le pelli utilizzate erano sette, tutte rigorosamente di capra (elemento notoriamente legato alla simbologia delle maschere zoomorfe ed al concetto di “capro espiatorio” tipico del Carnevale). Alcune fonti rimandano il simbolismo del numero delle pelli alla tradizione cristiana e quindi ai sette peccati capitali, altri lo rimandano alle sette contrade che componevano il comune di Tufara. È altrettanto probabile però, che il numero di pelli utilizzato sia nato da una questione di praticità, ovvero un quantitativo di pelli adatto a ricoprire tutto il corpo dell’attore (Gioielli, 1998).
Una volta finito di cucire il vestito, si procede alla cucitura su di esso della maschera che ricopre il volto. La maschera è solitamente composta di cartapesta e ritagli di stoffa colorata che ne danno la forma. Infine, la lingua penzoloni di colore rosso, non essendo cucita alla maschera né tantomeno al vestito, si mantiene tramite una linguetta che l’attore, interprete del Diavolo, mette in bocca.
Nella documentazione presente in relazione alla maschera, è importante sapere come essa in realtà non rappresenti testualmente il diavolo bensì una “bestia feroce” (Gioielli, 1998) che ha sembianze “infernali”. Per spiegare la particolare identità del Diavolo di Tufara potrebbe dunque essere utile riportare la seguente analisi: “Quanto agli aspetti più genericamente storico-culturali relativi alle maschere di Tufara, di Castelnuovo al Volturno e a quella scomparsa di Scapoli (e forse a poche altre ormai perdute e quasi del tutto dimenticate), in Molise, direi che esse possono senz’altro essere catalogate nel macro-insieme tipologico della maschere terio-(o zoo-)morfe. Ragioni strutturali, morfologiche e generalmente simboliche sostengono questa ipotesi. A differenza delle altre maschere di “bestie” o “animali feroci”, tuttavia, quella di Tufara ha subito un processo di “demonizzazione” sia letterale, per così dire, che metaforica, un processo che, per altri casi, è documentato sin dall’alto medioevo. Il suo statuto dipende quasi certamente da una moralizzazione in chiave cristiana di una probabile precedente maschera teriomorfa. Le gerarchie ecclesiastiche o, più semplicemente, il clero, in qualche momento della storia di Tufara, hanno certamente e in qualche modo contribuito a, o persino innescato questo processo” (Testa 2012, pp. 72)
Le due figure vestite di bianco che accompagnano il Diavolo durante il corteo, presentano una forte connotazione simbolica di rimando alla morte. Essi sono vestiti con abiti bianchi (probabilmente accostabili ad un sudario), il loro viso è tinto con della farina bianca (chiara allusione al pallore del defunto), senza contare che in mano portano delle falci (simbolo e strumento tipico della morte). Allo stesso tempo però, queste due figure abbracciano in pieno lo spirito Carnevalesco. I loro cappelli (dei fez rossi) e nastri colorati rimandano, seppur con delle differenze, alla figura satirica e canzonatoria del Pulcinella (figura tipica dei carnevali italiani, in particolare modo, tipica della tradizione partenopea) (Gioielli, 1998). Inoltre, se osservati con attenzione, si può notare che ciascun vestito bianco è adornato con dei merletti, il che potrebbe rimandare ad abiti femminili e quindi al tema della trasgressione, dello stravolgimento e del rovesciamento dei ruoli, tipico del Carnevale.
Le ultime tre figure che compongono il “Corteo del Diavolo” sono i Folletti o Monaci. Sono delle figure vestite con abiti monastici, con i volti tinti di nero, molto simili ad una nota figura del folklore molisano, un folletto vestito con tunica monacale conosciuto come “nipote del diavolo”, detto Mazzamuriello (Gioielli, 1998). Anche in questo caso, i Folletti o Monaci vengono fortemente accostati ad altri personaggi della tradizione dell’Italia Meridionale, come ad esempio O’ Munaciello, personaggio tra i più celebri nella tradizione Partenopea. O’Munaciello è uno spiritello imprevedibile e talvolta dispettoso, vestito come un piccolo monaco con cappuccio. Un altro accostamento si ha con la figura di Sant’Antonio Abate (considerato il padre dei monaci). Sant’Antonio abate è in oltre il “nemico del diavolo”, un ulteriore rimando alla maschera portante di questo Carnevale (Gioielli,1998). Un elemento caratteristico, che il Carnevale di Tufara mantiene vivo ancora oggi, è l’imprevedibilità data dall’improvvisazione.
Le maschere interagiscono costantemente con il pubblico, il Diavolo e il suo Corteo non posseggono alcun repertorio di frasi o movimenti precostituiti, rendendo ancora più caotica la mascherata. È interessante in conclusione notare come il Carnevale di Tufara si differenzi da altre manifestazioni italiane, per la dualità ben distinta tra “la maschera” ed il fantoccio del Carnevale. Il Diavolo non rappresenta in questo caso il “capro espiatorio”, sebbene sia vestito di pelli di capra che rimandano al simbolismo, ma è lo stesso fantoccio a subire le accuse dei mali che hanno colpito la comunità durante l’anno (Testa, 2012).
Il Carnevale di Tufara è stato protagonista del documentario “Le Indie di Quaggiù: La signora del grano” (1978); un estratto è reperibile a questo link Il “Diavolo” di Tufara (CB)). Il documentario mostra, in via eccezionale, come nel 1977 a Tufara vi fossero stati due “Cortei del Diavolo” antagonisti e di conseguenza due “Processi al Carnevale”. Un’approfondita analisi del Carnevale Tufarese del 1977 è in Padiglione 2016.
Il racconto della maschera del Diavolo è stato al centro di trasmissioni televisive Rai nel 1999, in particolare modo nella trasmissione di Rai 3 “Geo e Geo” e ad Uno Mattina su Rai 1.
Il 20 agosto 2022 si è tenuto a Tufara un evento di presentazione del libro per bambini, contenente racconti sulle maschere zoomorfe Molisane. Il libro si chiama “Uomo Cervo, fate, folletti e altri esseri fantastici del Molise”, ad opera di Stefania Di Mella e Laura Fanelli.